3.a SESSIONE – RIPRESE E CONCLUSIONI

No, il pensiero non è una deviazione della natura: è la legislazione della natura, e la parola pulsione significa legislazione riguardo alla natura, legislazione della natura che non ha legislazione: questa è la differenza fra il moto umano e il moto del mio cane.

Eureka! – Archimede – “ho trovato!”.

Lasciamo stare il passaggio dalla soddisfazione al godimento: sono le palle di Lacan, questa è stata la deviazione di Lacan. E ricordo quarant’anni fa quando questo punto mi confondeva: la soddisfazione, il piacere e poi il godimento. No, non c’è. C’è solo la soddisfazione, ossia la conclusione di un moto: eureka!

Anche se non sappiamo niente del signor Archimede, eureka! voleva dire che aveva trovato un’idea giusta e nuova. Cosa vuol dire? Che era valida per tutti: eureka di Archimede è perché ha trovato ciò che vale per l’universo intero. Questa è la soddisfazione.

L’insoddisfazione è ogni volta che noi constatiamo che non vale per l’universo intero, e alla fin fine non vale per nessuno, neanche per il mio vicino: e questa è la perversione.

Quando ognuno di noi dice eureka, anche il bambino che ero io a otto anni che uscivo per strada e poi trovavo, grazie a un’occasione esterna a me, un da farsi, la mia soddisfazione è che questa andava bene per tutti, ossia non andavo in giro per le strade a tirare i sassi contro le vetrine.

Attenzione all’esempio che ho fatto: alcuni miei compagni lo facevano. Non mi soddisfaceva tirare i sassi contro le vetrine. E ho capito molto più tardi che non mi soddisfaceva perché non era valido per tutti, benché avessi otto anni e non avessi la più vaga idea di cos’era il diritto né di chi fosse Kelsen.

Eureka, la soddisfazione, è quando il pensiero si avvicina all’idea che ciò è valido per tutti, e cioè che ciò è pacifico.

Quindi benissimo che gratia non tollit naturam, sed perficit[1]: cioè, non devia dalla natura. Cosa vuol dire perficit? Vuol dire avere portato a conclusione (perficere). Io adesso sto terminando il mio intervento; quando l’avrò terminato sarà perfetto, cioè concluso. E non sarò soddisfatto se non potrò ritenerlo concluso, perché – e questo vale per tutti voi quali che siano i vostri pensieri nel corso delle giornate – sarete insoddisfatti finché uno di questi pensieri non è arrivato a termine.

Per questo io dico che non precede il presupposto: noi partiamo sempre e subito dal posto, dal porre patti. Il patto è già la pulsione, ed è pulsione in quanto devo arrivare a un’azione che sia valida per tutti, non perché in famiglia mi rimproverano perché faccio cose sbagliate, non perché il prete o il partito mi accusa di avere sbagliato, ma perché non essere concludente è insoddisfacente.

Essere concludente significa essere positivo: l’ho posto io. Non sto a discutere su Kelsen e la norma fondamentale di cui mi occupavo già quarant’anni fa.

Avrei voluto parlare dell’isteria, che ho riassunto nella formula universale, generale, “Aspettami, io non vengo”.

Come si chiama l’isteria? Si chiama insoddisfazione metodica, perché se è “Aspettami, io non vengo” sarò sempre insoddisfatto. “Aspettami, io non vengo” ha come presupposto logico – non nel senso anzidetto – che l’altro venga e io venga. “Aspettami, io non vengo”, è l’insoddisfazione posta nell’esperienza, e l’ho posta io. Sarò anche stato tentato dal mio papà e dalla mia mamma, ma alla fin fine papà e mamma non c’entrano più.

Quando un paziente in analisi continua a parlare di papà e mamma, sta andando male l’analisi, perché comunque da un bel giorno sono io che ho cavalcato certi principi, come “aspettami, io non vengo”. Papà e mamma non c’entrano più niente, hanno cessato presto di essere causali; la causalità familiare ha le gambe corte: mi ha fatto arrivare su un pensiero, patologico, come “aspettami, non vengo”, ma da quel momento papà e mamma non c’entrano più. La loro causalità è stata tutta nell’introdurre il mio pensiero a un’idea. Fine dell’efficacia di papà e mamma.

Quindi finisce presto.

Dico ora anziché dopo una cosa: guardate, so che questa espressione “principio di piacere” continua a essere un po’ come “l’orlo dell’abisso”: non si sa… “Ah, abbiamo il principio di piacere!”. La domanda l’avete tutti. Certo, “principio di piacere” lo diciamo sempre: “certo che ho capito”, ma nessuno ha capito niente.

Ho cominciato la mia carriera di persona che scrive e dice delle cose, quando – e potrei datare il momento con la precisione del mese – ho cominciato a dirmi: “Non ho capito niente, e i miei maestri, neanche loro”. Ricordo che ho cominciato così dalla parola “rimozione”. Ricordo che tutti parlavano sempre della rimozione con l’aria di sapere di che cosa parlavano: non era vero! E un giorno mi sono detto “Non ho capito, ma neanche lui”. 

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Pronunciato il 15 Dicembre 2018
Trascrizione a cura di Gilda Di Mitri 
Revisione di Glauco Maria Genga
Testo non rivisto dall’Autore.


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Data di pubblicazione: 05/06/2016