Seminario 1996/1997
“PERCHÉ FREUD HA RAGIONE, 2”
Due osservazioni: una su ciò che abbiamo sentito ora e su quello che ha detto Ambrogio Ballabio.
Quanto al non essere spiacevole il ricordo della propria patologia, errore: al singolare, perché non è una lista; può essere una costellazione, ma non è una lista. Come quelli che dicono «Ah, io ho tanti limiti!»: sembra modestia, ma è soltanto una maniera per evitare di dargli peso. A parte che è insopportabile: come ti permetti di averne tanti! Come dice il popolo «Ma va a nasconderti!».
Un segno di guarigione, uno fra altri, specie la guarigione plurale — come dicevamo una volta che nella patologia ci sono tipi, mentre nella salute c’è solo varietà: i tipi sono mono, monolitici, monistici — e che c’è il piacevole, il sentimento di vantaggio nel ricordo della propria patologia o del proprio errore, sta nel fatto di riferirvisi come esempio, come termine di paragone permanente. Ad esempio, nel parlare a qualcun altro o come test. Ecco il test: il nostro test è il confronto con il proprio disturbo riconosciuto.
In questo senso, proprio come cenno, almeno come prima pace si osserva che il ricordo della propria patologia, usata per esempio mentre si parla, piuttosto che come termine di confronto quotidiano, nei rapporti più ordinari, il ricordo della propria patologia risulta più facile nella nevrosi ossessiva che nell’isteria.
Quanto a ciò che diceva Ambrogio Ballabio, ho trovato molto buono due cenni: uno su anagch tradotto come “per forza”, che trovo molto giusto, quindi non è la necessità, né quella fisica, né quella logica, neanche quella compulsiva. È piuttosto quel “per forza” che esiste normalmente come residuo di normalità nella società: se faccio un contratto, con vendita del cavallo, poi il cavallo te lo devo davvero consegnare: non mi viene neanche in mente di comprare o vendere per amore, compro e vendo “per forza”. Come tutti sanno, bisogna diffidare di un negoziante in un suk che ti dice che ti vende quella cosa a basso prezzo perché gli sei simpatico: non esiste. Non è da disprezzare l’espressione disprezzata dai moralisti, ma quando poi il moralista cambiava banchetto e si metteva a fare il capitalista, allora era d’accordo: busyness is busyness e non bisogna affatto che busyness is love. …
Pronunciato il 4 aprile 1997
Trascrizione a cura di Gilda Di Mitri
Testo non rivisto dall’Autore