Seminario 1995/1996
“VITA PSICHICA COME VITA GIURIDICA 2”
La parola «realtà» acquisisce definizione e chiarezza allorché viene considerata in quanto correlato dell’esperienza di ognuno. Vi è una resistenza ad assumere il pensiero dell’altro a pari titolo di realtà di tutto il resto.
Allorché una patologia sia iniziata, il primo dato di osservazione in un qualsiasi soggetto riguarda la pochezza dell’esperienza. Non si tratta di conoscere la patologia, bensì il come e il quanto della poca esperienza nella patologia. In questo senso, la patologia non è neppure un oggetto di conoscenza, perché la realtà della psicopatologia è la poca esperienza che in essa vi è. La «conoscenza della psicopatologia» si riduce alla conoscenza del poco dato presente nel dato.
Sullo «sgridare», mi veniva in mente l’Inquisizione che, quale che sia la storiografia da avvallare al riguardo, consisteva in un’attività di inchiesta, la quale nasce come giuridica. Una volta volevo scrivere un pezzo di SanVoltaire in cui mi sarei immedesimato con Torquemada redivivo, oggi, che ci ripensa e si chiede (con un atteggiamento di storico che fa simultaneamente la propria analisi e la storia di un’epoca): «O Dio mio! Che cosa ho fatto?». Avrei svolto il pezzo in risposta alla domanda: «Ma io, che cosa troverei effettivamente da ridire a mio riguardo?». Se ricordiamo che l’Inquisizione era un’inchiesta effettivamente giudiziaria, con tutti i mezzi coercitivi di qualsiasi processo penale del tempo, allora si può dire che, almeno, l’Inquisizione non era riducibile allo «sgridare», ma era l’andare alla ricerca di una effettiva imputabilità. La nostra pratica di cura è quella di una inquisizione senza coercizione, di cui si incarica il soggetto stesso. In questo senso noi facciamo un contrappasso buono, che è l’esatto rovescio del contrappasso dantesco secondo cui se, in vita, avevo peccato di gola, la pena sarebbe consistita nella privazione del piacere del cibo. In questo caso è il contrario: c’è un contrappasso buono nella cura. Resta l’inquisizione. Di essa è incaricato il soggetto e il risultato è atteso come benefico.
Nella storia della psicoanalisi è avvenuta una svolta consistente nell’ammettere la sofferenza come motivo del curare: «Ti curo perché soffri». Ma se viene da noi uno che dice soltanto di soffrire, costui si è già messo nell’impossibilità della cura. …
Pronunciato il 15 marzo 1996
Trascrizione a cura di Gilda Di Mitri
Testo non rivisto dall’Autore