Rieccolo l’antico oscurantismo uomo-animale, che gli illuministi non sono riusciti a illuminare:
rieccolo in un articolo di giornale, I neuroni della socialità (!?) [1] , che conosco per segnalazione di Elena Benzoni:
Inizia male:
“L’uomo è l’unica specie ad avere rapporti stabili di collaborazione extrafamiliari”:
1. già la parola “specie” è pre-giudiziale senza parere, cioè preteorizza l’uomo come una specie animale tra altre;
2. il pre-giudizio trova conferma nel caratterizzare l’uomo per differenza (dalle altre specie) anziché per autonoma proprietà.
Continua peggio, basta un florilegio del dogmatismo:
“il cervello umano crea e seleziona i processi nervosi della convivenza”; “le neuroscienze hanno trascurato a lungo i meccanismi nervosi della socialità umana”; “neuroscienza sociale, eccetera”; “architettura neurobiologica generale dei processi cognitivi”; “neuroendocrinologia sociale, eccetera”; “l’amigdala, organo della paura e dell’aggressività”.
Prendo le difese dell’innocente amigdala:
1. domando come si possa, in base alla comune esperienza umana, ignorare la distinzione tra paura e angoscia:
2. basta questa distinzione per costruire una tutt’altra architettura dei processi cognitivi;
un uomo può essere cattivo, sadico, vendicativo, bastardo, non aggressivo (anche quando aggredisce, ma non si tratta di espressione − bella parola! − dell’“aggressività”).
Ma noi abbiamo dalla nostra anzitutto il bambino, in cui la lingua è immediatamente intelletto, e senza passare per quell’apprendimento che è debitore della didattica:
la non-animalità dell’uomo è un dato elementare e precoce dell’esperienza:
il suo neurone è immediatamente intellettualizzato:
è il pensiero a trafficare subito il fido neurone, ottimo lavoratore che non conosce la fatica e si iscrive al PhD fin dai primi giorni (il bambino dovrà aspettare più di due decenni).
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[1] Arnaldo Benini, Il Sole-24 Ore, domenica 24 giugno.
mercoledì 11 luglio 2012
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