PROLUSIONE – INTRODUZIONE AL SIMPOSIO

Il tema dell’anno è coraggioso, potrei anche dire è enciclopedico. Ricapitola in sé tutto il nostro lavoro; credo che ambiziosamente potrei dire che la parola amore ricapitola il lavoro di tutti. Dire che ricapitola il lavoro di tutti vuol dire che Tutti significa diritto.

Siamo ben lontani dal collegare diritto e amore, al contrario: nella nostra maledetta coscienza vi contrapponiamo una coppia di opposti. Riunibili, conciliabili ma opposti

Per parte mia farò una parte minore del previsto. A un certo punto mi sono incantato e la parola incantamento ci sta bene, ricorda la parola innamoramento che chiamerei la fregatura universale. Una fregatura molto coltivata da Sant’Agostino nel suo non cedere mai sul tema dell’amore. C’è a questo riguardo un libro di Hanna Arendt che tratta il problema dell’amore in sant’Agostino; chi ha voglia di leggerlo troverà che quel libro è stupefacente. Segnalo tra le molte cose la frase in cui Agostino scrive: mi sono innamorato dell’amore. Poiché mi sono incantato sarò abbastanza breve. Ho chiesto a Mariella Contri di intervenire per sopperire al mio difetto di prolusione vera e propria.

Comincio così.

L’amore: da quando questa parola è sbucata, non so ancora dirlo, ma lì per lì, congetturo che risalga ai tempi dei greci, più o meno ai tempi in cui sorgeva un’altra dannata parola: “essere”. Ma non insisto perché a nessuno va dato l’idea che filosofeggiamo. Sto pensando ai danni che il filosofeggiare dei greci ci fa danno…

Comincio con la frase: l’amore – così come da molti secoli ci siamo subordinati, tutti senza eccezione – è l’oppio dei popoli. Celebre frase detta da Marx per la religione. Io l’ho spostata sull’amore.

Un esempio di oppio sta nel caso che ho citato nella pagina introduttiva, la bambina angosciata perché le viene detto che, se fa così, cadrà l’amore. Il difetto della bambina, intendo la sua mancanza di difesa, consiste nel non essere in grado di rispondere “che cada pure!”. L’angoscia non deriva da una verità, deriva da un inganno. E come l’oppiomane che dopo una certa carriera da drogato, si vede sottrarre l’oppio e cade nell’astinenza, nell’angoscia. Ma l’angoscia deriva dalla caduta dell’oppio, cioè da un danno.

Ho detto quella prima frase: l’amore è l’oppio dei popoli. Ne introduco una seconda, intenzionalmente un po’ volgaruccia: l’amore è una casa di ringhiera col cesso in fondo.

Una terza definizione dell’amore non deriva da me, ma circa 2500 anni fa da quell’avvelenatore che era Platone (non sono io il primo che gli dà dell’avvelenatore, è stato Derrida in un articolo di decenni fa intitolato: La farmacia di Platone, e pharmakon in greco è tanto il farmaco – Aspirina – quanto il veleno. Quindi dà, giustamente, a Platone dell’avvelenatore. Allora la terza critica dell’amore è venuta da Platone (ma in questa sede ne abbiamo parlato) quando nel Simposio dice che amore (Eros) è un poveraccio figlio della miseria come madre, Penia, e di un padre che vive di espedienti, Poros. Già Platone aveva le idee chiare, non per questo si è ravveduto, né lui né gli altri, con la loro ossessionante insistenza sull’essere. Ho detto ossessionante pensando alla nevrosi ossessiva.  

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Pronunciato il 16 Ottobre 2021
Trascrizione a cura di Ugo Teatini
Testo non rivisto dall’Autore.


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Data di pubblicazione: 05/06/2016