1° SEDUTA – CHI NON LAVORA NON MANGIA: NORMA E SANZIONE

Seminario 1995/1996
“VITA PSICHICA COME VITA GIURIDICA 2”

 

 

La frase bandiera del lavoro del Seminario di quest’anno intitolato «La vita psichica come vita giuridica» è: «Chi non lavora, non mangia». Questa frase costituisce una precisa norma che contiene la sua sanzione: se si verifica una certa condizione, allora deve seguire una certa sanzione. L’anoressia verifica la sanzione, penosa più che penale: è la pena della malattia, della patologia, norma di altra Città.

Notiamo invece che questa frase ammette anche la sua forma premiale, benefica, perché possiamo ben dire che – per chi mangia – ciò è sanzione, premio, al fatto che ha lavorato. Si tratta di sapere di quale lavoro stiamo parlando. Risulta meno facilmente intuibile che anche il beneficio è una sanzione: la forma premiale appare naturale, cosicché si mangerebbe perché se ne avrebbe bisogno, e poi – qualora si lavori – apparirebbe ancora più naturale il fatto che si pongano in essere le condizioni perché avvenga la soddisfazione del bisogno. Niente di più falso: non è vero che si mangia perché – endogenamente – c’è il bisogno e poi – esogenamente – ci si procura i mezzi per soddisfarlo. L’atto del mangiare è paragonabile a uno «starci», ma ciò non è intelligibile perché non siamo così erotici da mangiare bene.

«Mangia» significa soddisfazione, come moto compiuto, atto reale. La parola «soddisfazione» potrebbe essere sostituita con «volentieri»: unisce al gradimento l’atto del volere.

Si tratta di lavoro perché mangiare è acquisire qualcosa che non è già nel possesso di colui che è lì un momento prima di mangiare: c’è del nuovo, cui è connessa la soddisfazione, che si genera attraverso una legge di moto in quattro momenti, in cui il soggetto è attivo nel momento in cui opera affinché la propria soddisfazione si generi per mezzo di un altro. Questa legge di moto dice che nella materia prima è già investito del lavoro e pertanto essa risulta da una prima elaborazione, tanto quanto il carbone diviene materia prima solo dopo quel processo di lavoro che è l’estrazione. Il lavoro non produce ricchezza, se va bene produce mezzi di sussistenza. Affinché si produca ricchezza – in questo caso soddisfazione – occorre che il lavoro di un altro intervenga valorizzando, o sfruttando, il lavoro del soggetto: è solo un secondo lavoro, interveniente su un primo, che può produrre ricchezza ossia qualcosa che non era già lì dall’inizio.  …

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Pronunciato il 17 novembre 1995
Trascrizione a cura di Gilda Di Mitri
Testo non rivisto dall’Autore


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Data di pubblicazione: 05/06/2016