Corso 1997/1998
UNIVERSITÀ. CHE COSA POSSO SAPERE
Ossia la complessità. È questa la complessità.
Aderisco in particolare e mi sentivo di rinforzare l’ultimo punto, perché della complessità si sente parlare da tutte le parti. Ricordo ai tempi di “Sanvoltaire” su Il Sabato, in cui mostravo che la complessità di cui si parla è semplicismo e tutta l’aria di complesso che ne risulta è allorché almeno un fattore, il pensiero come ne parliamo noi, è stato tolto.
Anche questa volta io non faccio l’intervento sugli interventi: ho raccolto delle annotazioni che in questo breve intervallo aggiungo la prima: riguarda un senso comune riguardo all’espressione dover essere, per via di quel sentore di comando imperativo che resta incollato ai nostri timpani all’udire la voce dovere. Non prenderei, e questa volta non solo per validità, la via pedante, da scolasticità ordinaria, niente contro il pedante come tale — e la parola pedante ha la stessa radice della parola pedagogia — nel fare osservare che la parola composta dover essere venuta dalla complessità, è la traduzione corrente del verbo Sollen in tedesco.
Prenderei piuttosto una scorciatoia e assume anche l’espressione dover essere. Vi viene così perché mi è venuto un ricordo: mi è capitato una volta di incontrare un amico e io l’ho rivisto in buono stato, in buona condizione, mentre lo ricordavo negli ultimi nostri incontri depresso, nel senso più comune e popolare della parola. Allora io scherzando gli ho detto «Deve essere molto carina!» e il tipo ha apprezzato. Ed era peraltro la verità e la mia deduzione era stata corretta e mi ha raccontato la sua vicenda.
Nel fare la modestissima operazione esposta nella figura, ho ripreso, in modo implicito e anche denso — questa frasetta articolata contiene molto: analizzata si vedrebbero molte cose — e ora ciò riguarda il nesso fra sapere, dottrina, linguaggio: ormai non ho più la minima esitazione che un sapere, quanto a un concetto, a una dottrina, quant’altro, è per così dire al punto giusto, ivi compreso l’essere anche logicamente soddisfacente, allorché la lingua comune, ordinaria, — ecco il dover essere di cui si tratta e non c’è alcun imperativo, in esso, alcun comando — e del resto si sa abbastanza bene che quando la lei o il lui di turno “si fa bella” — come si dice malissimo — per un imperativo di “dover essere bella”, il risultato non è un granché e lo si coglie immediatamente. …
Pronunciato il 24 gennaio 1998
Trascrizione a cura di Gilda Di Mitri
Testo non rivisto dall’Autore